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- Cape Horn

OLTRE IL 56°SUD

MADRE DE DIOS

Una spedizione tra fiordi, ghiacciai e silenzi che trasformano il viaggio in un passaggio interiore.

Ci sono luoghi che non cerchi: ti chiamano.

Madre de Dios è uno di questi.
Una delle isole più remote della Patagonia cilena, affacciata sul Pacifico e immersa in un intreccio di fiordi dove la pioggia cade quasi ogni giorno, modellando un paesaggio che cambia continuamente.

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Non un punto sulla mappa, ma un margine, un limite.

Quando decidemmo di partire, il nostro obiettivo era uno solo: raggiungere qualcosa di autentico e remoto. Non un punto sulla mappa, ma un margine, un limite.

La spedizione fu complessa: capitani, marinai, guide specializzate, ricercatori dell’Università di Santiago del Cile. Oltre dieci persone, ognuna indispensabile. Le tempeste del Pacifico, i canali stretti, la visibilità annullata dal vento ci ricordavano ogni giorno quanto eravamo piccoli.

Ricordo di aver annotato nel mio diario una frase semplice, dopo una lunga giornata di navigazione:

“Dai cunicoli del ghiacciaio scendono flussi che tornano all’oceano. È come se la montagna respirasse.”

Non immaginavo che quella sensazione sarebbe tornata così concreta il giorno in cui decidemmo di scendere in kayak.

La barca non poteva avanzare oltre.

Era mattina presto quando raggiungemmo una baia stretta, incisa tra pareti scure e curve morbide disegnate dall’acqua. Il ghiacciaio scendeva verso il mare come una massa viva, attraversata da crepacci e tunnel invisibili. La barca non poteva avanzare oltre. L’unico modo per entrare davvero nel paesaggio era metterci a bordo dei nostri kayak.

Entrare in un’insenatura glaciale in kayak è come attraversare una soglia. Non senti più la distanza tra te e l’ambiente: diventi parte della scena. Le palette sfiorano l’acqua con un rumore leggero, mentre intorno si muovono piccoli iceberg che si inclinano, ruotano, si aprono in silenzio.

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Era come osservare un confine in trasformazione

Poco più avanti, i cunicoli interni del ghiacciaio rilasciavano flussi di acqua dolce che scivolavano nel mare con un ritmo lento e profondo.
Era come osservare un confine in trasformazione: il punto esatto in cui il ghiaccio torna oceano, il solido torna liquido, la montagna torna movimento.

In quel momento, circondato da elementi primordiali, capii perché eravamo lì.
Non per documentare.
Non per arrivare a una meta.
Ma per attraversare un luogo dove ogni cosa esiste in un equilibrio fragile, potente, incontaminato.

Per ascoltare una natura che non concede appigli ma regala visioni che ti restano dentro.

Il ghiaccio vibrava, respirava

Eravamo circondati da pinnacoli di ghiaccio sospesi sull’acqua, colonne irregolari che riflettevano la luce in un blu difficile da descrivere. Il ghiaccio non era statico. Vibrava, cambiava, respirava.

Poco più avanti, i cunicoli interni del ghiacciaio rilasciavano flussi di acqua dolce che scivolavano nel mare con un ritmo lento e profondo.

Era come osservare un confine in trasformazione: il punto esatto in cui il ghiaccio torna oceano, il solido torna liquido, la montagna torna movimento.

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Il silenzio che segna il passaggio

Quest’isola così remota della Patagonia sud-occidentale ti insegna questo: l’essenziale non ha bisogno di parole, ha bisogno di silenzio.

Quel silenzio avrebbe segnato l’ingresso in un’altra fase del viaggio, verso il fronte del ghiacciaio e oltre, dove la spedizione avrebbe trovato il suo respiro più profondo.

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Alla fine, di Madre de Dios rimane questo: l’idea che alcuni luoghi non si attraversano, si ascoltano. Ti costringono a rallentare, a misurarti senza difese, a riconoscere ciò che conta davvero.

- Gilberto Ferrari

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